Sì AL FASHION NATURALE, PRESERVIAMO L’ AMBIENTE!

Il fashion causa il 20% dello spreco di acqua globale, provoca il 10% di emissione di anidride carbonica mentre  l’85% dei vestiti finisce in discarica di cui solo l’1% viene riciclato o rigenerato.

La moda consuma risorse preziose e inquina tanto, troppo. Ci hai mai pensato? Probabilmente sì, ma sicuramente non ci hai  riflettuto abbastanza. Devi sapere, invece, che la scelta dei capi e soprattutto il modo in cui li dismetti hanno un impatto incredibile sul pianeta. 

Per avere un’idea più chiara e corretta dell’effetto che la moda ha sull’inquinamento è necessario dare un’occhiata a certi numeri: 

  • causa il 20% dello spreco di acqua globale;
  • la tintura dei tessuti rilascia 72 sostanze tossiche nell’acqua, di cui 30 vi restano in maniera permanente;
  • provoca il 10% di emissione di anidride carbonica, che aumenterà del 60% nei prossimi dieci anni; 
  •  l’85% dei vestiti finisce in discarica di cui solo l’1% viene riciclato o rigenerato. 

E’ stato stimato che dal 2000 il consumatore medio acquista il 60% in più rispetto al passato e a un ritmo vertiginoso.

E’ tempo di porci come consumatori  consapevoli ed esigenti, di domandarci come vengono realizzati i  capi che indossiamo, di riflettere e assicurarci  che  modi, tempi e luoghi di produzione non deteriorino oltre  il pianeta;    di prendere atto che dalle nostre azioni dipende anche la giustizia sociale. 

Caro il mio lettore, ti starai sorprendendo della mia ultima affermazione, ma anche su questo ti invito ad una riflessione.

Se dismetti facilmente una T-shirt devi sapere che per realizzarla  sono stati utilizzati 2700 litri d’acqua pari al fabbisogno di una persona per due anni e mezzo.

Ci sentiamo fashion con ai piedi un bel paio di sneakers, magari all’ultimo grido, eppure tutti sappiamo che chi le realizza suda lacrime e sangue lavorando a ritmi incessanti. Un’inchiesta pubblicata nel 2016 su The Observer denunciò che nel giro di tre giorni svenirono 360 operaie in una fabbrica di scarpe da ginnastica per la Asics, nella provincia di Kamong Speu, in Cambogia.

Pensa per esempio alla Nike, nata nel 1964 negli Stati Uniti, con un  fatturato di 35 miliardi annuo, che per anni ha  sfruttato   minori e permette ancora lo sfruttamento di lavoratori adulti. 

Citra, una giovane madre indonesiana di 32 anni, per esempio, testimonia che lavora 55 ore e sei giorni a settimana e guadagna solo 184 dollari al mese cioè, 83 centesimi l’ora, 2208 dollari l’anno. Citra lavora nel reparto di cucito e deve occuparsi di 100 scarpe all’ora. “Se non ce la faccio mi urlano contro e non c’è scampo. Io non voglio che la Nike abbandoni il mio paese. Quel poco che danno per noi è comunque importante. Qui da noi c’è tanta, troppa miseria. Ma sarebbe davvero bello se la smettessero con le loro urla e aumentassero i salari di un 50%. Mi ammazzerei di lavoro come sempre, ma per i miei figli ci sarebbe un pezzettino di vita migliore”.

Sostenibilità, dunque, è la parola d’ordine con cui il settore abbigliamento si sta avviando ormai  al rispetto dell’ambiente e del lavoratore.

Non mancano esempi virtuosi. Per esempio l’obiettivo  di Dong Seon e  di Giuliana è quello di lanciare sul mercato una calzatura a basso impatto ambientale, made in Italy, realizzata con materiali innovativi ed ecosostenibili, provenienti dagli scarti dell’industria alimentare e caratterizzata da un design casual, colorato e unisex con richiami agli anni ’90. I materiali sono principalmente di tre tipologie di simil-pelle derivanti da sottoprodotti delle attività agricole o industriali che lavorano la frutta: Piñatex, realizzato con le foglie di scarto dell’ananas coltivato nelle Filippine; Vegea textile e Pelle-mela che si ricavano rispettivamente dalla bio-polimerizzazione della vinaccia e delle parti non commestibili delle mele, in Italia.

Questa proposta di moda cerca di lavorare con materie prime meno inquinanti, di ridurre gli sprechi nella produzione, come i costi di acqua ed elettricità, e produrre parti durevoli, stimolando il consumo consapevole. Inoltre, questo modello propone una produzione più umana, senza sfruttamento dei lavoratori e con una remunerazione più equa.

In conclusione bisogna prestare molta attenzione ad evitare di dismettere facilmente i capi e puntare al riuso e al riciclo, inoltre è bene imparare a leggere le etichette, perché le scelte giuste effettuate a piccoli passi  andranno a influire positivamente  sull’ambiente e sull’equità sociale. 

Articolo realizzato da: Giovanni Attilio, Simone Di Pede, Stella Gjepali, Mariateresa Lentini,
Nicole Capezzera, Tania Kumar, Nunzio Cifarelli, Pasquale Figliuolo (classe 3A SIA)

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